Considerazioni sulle procedure per l’ottenimento del CPI

Giovanni Contini | 10 novembre 2006

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La snella procedura per la notifica della realizzazione delle strutture (la “denuncia dei cementi armati” con deposito del progetto presso i pubblici uffici e il collaudo finale eseguito da un professionista privato) sta prendendo piede anche in altri ambiti. Nell’edilizia da anni vige la Denuncia di Inizio Attività (D.I.A.) e lo scorso 22 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge in materia di efficienza amministrativa che tra l’altro stabilisce la sostituzione del certificato di agibilità edilizia con la dichiarazione di conformità del direttore lavori. Anche nella prevenzione incendi si sono viste modifiche: il DPR 37/98, nelle more del rilascio del Certificato di Prevenzione Incendi, consente l’inizio dell’attività previa autocertificazione del titolare e una circolare del Ministero dell’Interno del maggio 2000, ha introdotto la facoltà del professionista di certificare la validità del progetto nelle more del rilascio del parere di conformità. E’ lecito supporre che al fine di snellire le procedure e alleggerire il carico di lavoro dei Comandi provinciali dei Vigili del Fuoco, venga prima o poi adottato anche per il C.P.I. un iter simile a quello della denuncia c.a. o della D.I.A. edilizia. Ma perché l’iter per l’ottenimento del C.P.I. comporta oggi un così alto dispendio di energie per la pubblica amministrazione e per i professionisti? Una delle principali difficoltà riscontrate dagli addetti ai lavori nello svolgimento della loro attività è data dalla non univoca interpretazione ed applicazione delle norme e delle procedure. Il nostro quadro normativo di prevenzione incendi è a macchia di leopardo: se per alcune voci di rischio le direttive sono estremamente puntuali e definite, per altre sono quasi inesistenti. La circostanza costringe spesso gli operatori dei settore ad operare per analogia, mutuando riferimenti da norme per attività similari con l’inevitabile discrezionalità interpretativa che produce nel cittadino sfiducia per il sistema.
Occorre quindi perseguire l’omogenea applicazione delle norme e delle procedure. L’uniformità di indirizzo applicativo contribuirebbe senza dubbio a stimolare la tanto auspicata concorrenza tra professionisti i quali si dovrebbero confrontare sulla approfondita conoscenza della normativa e non sulla approfondita conoscenza di come ogni singolo funzionario interpreta i passi non chiari delle norme. L’uniformità applicativa delle norme eviterebbe anche contenzioso tra titolari di attività, professionisti ed enti di controllo e porterebbe quindi alla riduzione dei costi per gli utenti a fronte di un alleggerimento del carico di lavoro dei professionisti non più costretti a rielaborare progetti; come pure comporterebbe un alleggerimento di carico di lavoro dei Comandi provinciali VVF che non si vedrebbero costretti a respingere e rivedere più volte le stesse pratiche. Risultano quindi particolarmente lodevoli le iniziative di alcuni direttori regionali e comandanti provinciali VVF volte ad organizzare tavoli tecnici attraverso i quali analizzare i quesiti più ricorrenti cui dare risposte che possano costituire, per quanto possibile, un riferimento atto a produrre uniformità di indirizzo. Un’ultima considerazione. E’ nota la ritrosia di molti titolari di attività ad affrontare l’iter per l’ottenimento del CPI considerato una incombenza burocratica da soddisfare e non un riconoscimento di qualità da raggiungere e neppure un investimento aziendale da attivare. Le compagnie di assicurazione certo non aiutano: le attività coperte da CPI non ottengono sconti sulle polizze incendio perché il certificato di prevenzione incendi, seppur rilasciato da un ente certificatore estremamente qualificato come il Comando provinciale VVF, non è tra i parametri di valutazione per la formazione dei premi assicurativi. Forse si dovrebbe intervenire anche in questa direzione.

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